Lasciare il posto in parlamento: fra dimissioni, decadenze e incompatibilità – inTema n.9

Questa settimana il senato doveva votare le dimissioni di Giuseppe Vacciano. Sarebbe stato il terzo tentativo per il parlamentare eletto con il Movimento 5 stelle di lasciare Palazzo Madama. Purtroppo per Vacciano però il voto è saltato, con la prossima calendarizzazione ancora da definire. Ma come funziona il processo di dimissioni per senatori e deputati? Perché i nostri eletti decidono di andare a fare altro? E soprattutto, quelli che riescono a lasciare l’incarico, cosa vanno a fare? Abbiamo scoperto che mentre alcuni parlamentari hanno abbandonato l’incarico in parlamento con relativa facilità, altri si trovano “imprigionati” da mesi a fare un lavoro che non vogliono più fare.

 

Come si dimette un parlamentare

Chissà se questa volta Giuseppe Vacciano sarebbe riuscito a dimettersi da parlamentare. In settimana era infatti in calendario il voto sulle sue dimissioni, il terzo. Già a febbraio 2015 e nel successivo settembre le dimissioni di Vacciano erano state respinte dal parlamento. Quello in programma sarebbe dunque stato il  terzo voto sulla sua richiesta, ma purtroppo per il senatore è stato tutto rimandato.

Il senatore, eletto con il Movimento 5 stelle, era stato espulso dal gruppo a inizio 2015, per poi sbarcare al Misto. Da quel giorno Vacciano ha tentato in vario modo di chiudere l’esperienza con la politica, cosa che si è rivelata più ardua del previsto.

Una decisione dettata dalla coerenza. Nel momento in cui ho capito che la mia esperienza con il M5S era conclusa, insieme ad essa considero conclusa anche quella politica […] per restituire ai cittadini un rappresentante della forza politica con cui sono stato eletto.

Così ha dichiarato il senatore Vacciano in un’intervista con ilfattoquotidiano.it, per giustificare questa sua “battaglia” che ormai va avanti dal gennaio del 2015, data in cui ha lasciato il movimento. Una vera battaglia anche perché va ricordato che da costituzione (art. 16) “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge“.

Ma come funziona il processo che porta a terminare in anticipo il proprio incarico in parlamento? La nostra costituzione non riconosce un vincolo di mandato (art. 67) nei confronti degli eletti, dando loro la libertà di fare quanto credono durante il periodo in carica. Questo chiaramente include anche la possibilità di dimettersi prima della fine del proprio incarico, facendo quindi subentrare il primo dei non eletti.

Un parlamentare si può dimettere o per incompatibilità di incarichi (in caso volesse assumere una carica o un impiego incompatibile con la sua carica) o per motivi personali. Nel primo caso il presidente lo comunica all’assemblea, che ne prende atto senza procedere a votazioni.Nel secondo caso invece si mette in atto un processo differente: il parlamentare in questione deve spiegare le proprie motivazioni all’aula, la quale poi voterà sulle dimissioni. Il voto su una persona, da regolamento, sia della camera che del senato, deve essere fatto a scrutinio segreto. È prassi che la prima votazione abbia esito negativo, come gesto di cortesia nei confronti del deputato o senatore.

Il processo è quindi molto lungo, sia per calendarizzare la votazione, che per poi mettere in piedi la macchina che porta, eventualmente, alla nomina del primo dei non eletti (che potrebbe comunque a sua volta decidere di dimettersi dall’incarico).

A differenza di Vacciano, ci sono dei parlamentari che sono riusciti a terminare in anticipo il loro incarico, abbandonando il loro incarico presso Montecitorio e Palazzo Madama. Ma quanti sono? E soprattutto, perché? La scelta è stata loro, o imposta da forze esterne?

 

Quanti eletti non sono più parlamentari e perché

Nonostante il processo che porta alle dimissioni di un parlamentare può essere contorto, da inizio legislatura 49 eletti hanno terminato in anticipo il loro incarico. 34 di essi venivano da Montecitorio, mentre 15 da Palazzo Madama.

Ci sono due modi per porre fine anticipatamente al proprio incarico: o tramite dimissioni (come abbiamo visto in precedenza), o per forze esterne (la morte del parlamentare o la decadenza del suo incarico). La prima possibilità è la più comune. Da inizio legislatura 43 parlamentari si sono dimessi: 34 per incompatibilità (quando si assume un altro incarico che non può convivere con quello di senatore o deputato) e 9 per motivi personali.  Inoltre quattro sono deceduti, e due sono decaduti (Berlusconi e Galan).
Il fenomeno è ovviamente più consistente nei partiti più numerosi. Basti pensare che dei 49 parlamentari in questione, quasi il 45% sono del Partito democratico. Subito dietro ci sono Forza Italia con il 22,45%, la Lega nord (14,29%), Scelta civica (6,12%), Sinistra ecologia e libertà (4,08%) e infine l’Udc (2,04%). A questi bisogna aggiungere tre senatori a vita.
Il numero generale dei 49 parlamentari che hanno concluso anzitempo il proprio incarico è in media con il trend storico. Nella scorsa legislatura infatti (2008-2013) i parlamentari che hanno terminato prima il proprio incarico erano stati 74 (47 alla camera e 27 al senato) più o meno 15 all’anno. Ad oggi l’attuale legislatura raggiunge quota 16.

Ma perché deputati e senatori decidono di lasciare la politica nazionale e per fare cosa? La scelta è dettata dalla volontà di chiudere con la politica, o si passa semplicemente ad altri incarichi?

 

Cosa fa chi lascia in anticipo il parlamento

Molti parlamentari hanno deciso che la vita da deputato o senatore non faceva più per loro. Per ben 43 dei 49 eletti che ora non siedono più in aula la scelta è stata personale, e non dettata da cause esterne (decesso o decadenza).

Le motivazioni possono essere di vario tipo, e in minima parte riguardano la possibilità di “chiudere con la politica“. Dei parlamentari diventati ex nell’attuale legislatura, infatti, sono pochi coloro che hanno deciso di mettere in pausa la carriera politica per fare altro. Tra questi l’ex premier Lettaandato in Francia per insegnare, l’ex ministro ai beni culturali Bray ora direttore generale dell’Instituto della enciclopedia italiana o l’ex viceministro agli esteri Pistelli ora vicepresidente di Eni.

Dunque solo una minoranza lascia il parlamento sospendendo la carriera politica; invece gli altri, cosa sono andati a fare? Per molti ex parlamentari la politica è rimasta la professione principale. Una parte cospicua di essi (il 34,09%) è stata eletta al parlamento europeo nel 2014, e ha optato per la carriera a Bruxelles piuttosto che a Roma. Il 22,73% invece ha preferito le istituzioni regionali, anche se qua le modalità sono stati differenti. C’è chi come Nichi Vendola si è candidato al parlamento da governatore di regione (decidendo poi di rimanere in Puglia), o chi come Fulvio Bonavitacola che dopo oltre 2 anni di mandato in aula ha accettato l’incarico di vicepresidente della regione Campania.

Sono sei invece i parlamentari che hanno preferito incarichi di livello comunale, anche se con modalità differenti. Da Ignazio Marino e Dario Nardella che hanno deciso di dimettersi per motivi personali all’inizio della campagna elettorale e prima ancora di essere eletti (rispettivamente a sindaco di Roma e Firenze), a chi ha preferito avere la certezza di essere eletto per far scattare l’incompatibilità (per esempio Bitonci a Padova, Biffoni a Prato e Decaroa Bari).

Ci sono vari aspetti della questione che non vanno come dovrebbero andare. Il primo problema riguarda l’incapacità dei nostri politici di portare a termine il proprio mandato. Quelli che hanno terminato in anticipo l’incarico, decidendo di fare politica altrove (per esempio al parlamento europeo), hanno di fatto tradito un impegno con gli elettori. Altri due problemi riguardano la modalità in cui tutto ciò avviene. Innanzi tutto candidarsi per un altro incarico solo per far prendere voti alla propria lista, sapendo che poi non si andrà mai a ricoprire quel ruolo, è sintomo di una vita partitica non particolarmente sana (vedi il caso Nichi Vendola in Puglia). In secondo luogo, una volta che ci si candida ad un altro incarico, pur essendo già parlamentare, sarebbe il caso di dimettersi subito, senza aspettare un’eventuale elezione e senza far scattare l’incompatibilità. Sarebbe un gesto di rispetto nei confronti delle istituzioni e dei cittadini.

I 5 stelle intrappolati in parlamento

La storia di Giuseppe Vacciano non è un caso unico in parlamento. Come lui, infatti, anche altri parlamentari da inizio legislatura hanno tentato invano di dimettersi da Montecitorio o Palazzo Madama. Come abbiamo già visto il parlamento vota sull’accettare o meno determinate dimissioni, quando queste avvengono per motivi personali e non per incompatibilità.

Da inizio legislatura parliamo di 20 casi, di cui 9 hanno sono state accettate (45%) e 11 respinte (55%). Quello che sorprende però è la divisione nei partiti. Nessuno eletto del Movimento 5 stelle che ha tentato di dimettersi è riuscito nel suo intento . 10 votazioni che hanno coinvolto 6 parlamentari, tutte con esito negativo. Parliamo nello specifico di Laura Bignami (dimissioni respinte l’11 giugno del 2014), Cristian Iannuzzi (due volte, la prima il 12 febbraio 2015, la seconda il 27 febbraio 2015), Giovanna Mangili (anche lei due volte, il 3 aprile 2013 e il 17 aprile successivo), Francesco Molinari (dimissioni respinte il 17 febbraio 2015), Maria Mussini (votazione avvenuta l’11 giugno 2014), Ivana Simeoni (il 17 febbraio 2015), e il citato Giuseppe Vacciano (con due votazioni, la prima il 17 febbraio 2015 e la seconda il 16 settembre successivo). Come loro, per dovere di cronaca, anche Walter Tocci, senatore del Partito democratico, le cui dimissioni sono state respinte il 26 novembre scorso.

Sembra evidente quindi che la volontà di dimettersi, nella maggior parte delle occasioni non basta per terminare il proprio incarico in parlamento. Deputati e senatori coinvolti sono in qualche modo prigionieri della volontà del loro partito e del parlamento. La loro capacità di convincere i colleghi di gruppo, o del gruppo stesso di convincere il resto degli schieramenti, determina l’esito del voto. Tutto questo è ovviamente pensato a protezione sia del dimissionario che delle istituzioni (per evitare dimissioni “spinte” dal partito o da gruppi di interesse esterni), ma finisce per costituire uno scenario particolare. Le scuole di pensiero sembrano essere due: da un lato quelli che considerano ingiusto tenere qualcuno in aula contro la sua volontà, dall’altro lato quelli che pensano sia corretto tutelare così tanto il ruolo del parlamentare da possibili pressioni, proteggendo in questo modo anche le istituzioni stesse.

 

Lasciare il posto in parlamento: fra dimissioni, decadenze e incompatibilità

Ma lasciando aperto il dibattito sull’opportunità o meno del contorto meccanismo che porta alle dimissioni per motivi personali, il tema che permane è un altro. I nostri eletti, nel caso specifico i nostri parlamentari, sembrano essere spesso incapaci di portare a termine un incarico per cui sono eletti. Già in passato abbiamo affrontare il tema, condannando la scelta di alcuni deputati e senatori di candidarsi a sindaco (senza dimettersi) nelle amministrative dello scorso giugno. La questione va comunque affrontata perché è evidente che per molti politici la vita parlamentare sta perdendo di interesse. 

Come visto nel nostro MiniDossier “Premierato all’italiana“, su 10 atti che diventano legge, 8 sono di iniziativa del governo e solo 2 del parlamento. Fra dibattiti in aula strozzati da richieste di fiducia e gli atti più importanti ad appannaggio dell’esecutivo, è evidente che il ruolo di deputati e senatori sta cambiando drasticamente. Non solo, l’indice di produttività parlamentare ci permette di vedere quanto quel poco di potere ancora gestito dai parlamentari, sia in realtà nelle mani di quei pochi eletti che hanno degli incarichi all’interno delle varie commissioni e gruppi parlamentari.

Tutto questo per dire che l’alto numero di incompatibilità che sono emerse nel corso della legislatura, a causa di incarichi politici ottenuti presso altre istituzioni, potrebbe essere collegato alla minore attrattività del ruolo di parlamentare. Si va a fare politica altrove (parlamento europeo, o giunte comunali e regionali) per la possibilità di fare di più in contesti più “facili”? Forse quanto visto fino ad ora non basta per rispondere a questa domanda, ma è evidente che alcuni indizi sono presenti. Sarà per l’immobilismo che per anni ha caratterizzato il nostro assetto parlamentare, o per la crescente centralità del governo nelle dinamiche legislative, ma forse molti deputati e senatori, una volta eletti, si sono resi conto che lasciare realmente il segno in parlamento è più difficile del previsto. Proprio per questo motivo per quelli che non hanno avuto la possibilità di andare a fare politica altrove, una volta persa la spinta ideologica iniziale, rimanere a Montecitorio o Palazzo Madama ha perso di senso. E’ stato così per i tanti ex 5stelle che ormai non si ritrovano più nel movimento, e per gli eletti con Scelta civica che con l’uscita di Monti si sono trovati senza una guida politica.

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