Ministri: come e quando finiscono gli incarichi – inTema n°4

Il caso Guidi ha alzato un polverone politico che ha riempito le prime pagine dei giornali. Le sue dimissioni hanno aperto una settimana politicamente infuocata, condita anche dalla presentazione da parte dell’opposizione di una mozione di sfiducia nei confronti del governo.

Le dimissioni dell’ormai ex ministra sono l’occasione per fare il punto su un tema che periodicamente torna di attualità: i poteri del primo ministro nei confronti della sua squadra di governo. Un premier può “licenziare” uno dei suoi ministri? Quali sono i modi per far terminare in anticipo l’incarico di un ministro? E come funziona nelle altre grandi democrazie europee? Vari esponenti politici, da Berlusconi a Renzi, hanno invocato la possibilità di aumentare i poteri del primo ministro per assicurare un maggiore controllo nei confronti di chi è a capo dei singoli dicasteri. Vediamo cosa prevedono le regole attuali. 

Ministri del governo: nomina e revoca, la prassi in Italia

Dopo Lanzetta, Mogherini e Lupi, quelle di Federica Guidi sono le quarte dimissioni presentate da un ministro del governo Renzi. Il processo che porta alla nomina di un ministro è chiaro, ed è regolato dall’ articolo 92 della costituzione:

Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri.

Quello su cui però la nostra carta costituente fa poca chiarezza è come si possa revocare un ministro. Perché se da un lato è evidente che è il primo ministro a individuare le figure a capo dei singoli dicasteri, non c’è traccia del potere di “dimissionarli”. Si tratta un punto su cui si sono soffermati in molti, sia del mondo politico che del mondo accademico, ma che formalmente rimane irrisolto, anche perché non è mai successo che un premier revocasse un ministro. La cosa che più ci si avvicina sono i rimpasti di governo, con dimissioni “forzose” da parte dei ministri uscenti.

Ma se un ministro costituzionalmente non può essere revocato dal premier, come può essere costretto a terminare anticipatamente il suo incarico? Com’è noto esiste nel nostro ordinamento lo strumento delle sfiducia.

Articolo 94 – costituzione italiana – Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere. Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale. Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Il voto contrario di una o d’entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni. La mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione.

Ancora una volta la nostra costituzione non è chiara sull’ammissibilità dei voti di sfiducia nei confronti dei singoli ministri, ma in pratica esistono per la responsabilità che li lega individualmente agli atti dei loro dicasteri (art. 95). Una possibilità confermata dalla sentenza numero 7 della corte costituzionale del 1997; il pronunciamento era stato invocato da Filippo Mancuso, ministro della giustizia sotto il governo Dini, sfiduciato dalla maggioranza nel 1995 (primo caso della storia repubblicana). Inoltre è utile ricordare che in seguito alla prima mozione di sfiducia presentata (nel 1984 contro l’allora ministro degli esteri Andreotti), nel 1986 il regolamento della camera nell’articolo 115 fu modificato per includere quest’eventualità. La riforma precisò che la disciplina di sfiducia al governo “si applica alle mozioni con le quali si richiedono le dimissioni di un Ministro“.

Dopo anni quindi, lo strumento è stato riconosciuto e istituzionalizzato, ma quanto spesso è stato utilizzato?

Quando il parlamento sfiducia un ministro, o almeno ci prova

Per anni si era discusso se fosse costituzionale o meno sfiduciare un singolo ministro, e dopo il caso Andreotti nel 1984 si è dato il via libera alla fantasia dei nostri eletti. Con l’introduzione di questo strumento nei regolamenti di camera e senato, il suo utilizzo da parte dei membri del parlamento ha avuto un’impennata.

Nelle prime 15 legislature deputati e senatori hanno votato una dozzina di mozioni di sfiducia nei confronti di singoli ministri, di cui solo una è andata a buon fine. Ma nella XVI e XVII il ricorso allo strumento è aumentato. Nella scorsa legislatura i voti sono stati quattro: nel dicembre nel 2010 l’opposizione (Partito democratico) presentò una mozione contro il governo; pochi mesi dopo, nel gennaio del 2011, fu la volta del ministro dei beni culturali Sandro Bondi; nel settembre dello stesso anno la “vittima” fu Francesco Saverio Romano, a capo del dicastero delle politiche agricole; e infine, con il cambio di governo, Lega nord e Italia dei valori presentarono una mozione contro il ministro del lavoro Elsa Fornero. Nessuna delle azioni citate è andata a buon fine.

Con le elezioni del 2013 inizia la XVII Legislatura, che ha visto il susseguirsi, fino ad oggi, di due governi differenti. Anche durante l’attuale legislatura le mozioni di sfiducia presentate sono state quattro: nel luglio del 2013, pochi mesi dopo l’insediamento dell’esecutivo Letta, con il caso Shalabayeava, il Movimento 5 stelle propose il voto contro il ministro e vice premier Angelino Alfano; nel novembre dello stesso anno fu il ministro della giustizia Annamaria Cancellieri ad essere sotto tiro; a novembre del 2014, ormai nell’era Renzi, ancora una volta fu il ministro Alfano al centro delle polemiche per gli scontri tra i lavoratori Ast di Terni e le forze dell’ordine; l’ultimo caso in ordine di tempo ha visto protagonista la ministra per i rapporti con il parlamento Maria Elena Boschi, al centro del polverone Banca Etruria.

Nonostante la recente impennata nei numeri, ad oggi Filippo Mancuso rimane l’unico ministro della storia repubblicana ad essere stato sfiduciato dal parlamento. Allargando l’attenzione a tutta la squadra di governo, includendo anche sottosegretari e vice ministri, non si può non menzionare il caso di Nicola Cosentino. Sottosegretario all’economia nel IV governo Berlusconi, dopo tre mozioni di sfiducia non andate a buon fine nei suoi confronti nell’ottobre del 2009, prima della quarta nel luglio del 2010, si dimise per evitare di aspettare l’esito del voto.

È evidente che in un contesto politico sempre più caldo e instabile, deputati e senatori si sentono quasi in dovere di mettere il bastone fra le ruote dei ministri presentando mozioni di sfiducia nei loro confronti. Questo da un lato ci ha abituato a un dibattito politico acceso, dall’altro ci conferma la difficoltà, per quanto comprensibile, da parte dell’opposizione di portare a termine le proprie battaglie. Ad oggi, infatti, l’unico caso di successo ha visto l’azione decisiva della maggioranza, artefice essa stessa della mozione in questione.

Scandali e indagini, quando si dimettono i ministri in Italia

Come abbiamo visto in precedenza, costituzionalmente il primo ministro non ha il potere di revocare l’incarico dei suoi ministri, e una sola volta il parlamento è riuscito a sfiduciare il capo di un dicastero. Dunque le dimissioni (forzose o meno che siano) sono l’unico modo per far terminare in anticipo l’incarico di un ministro. 

Dal 2008 ad oggi si sono dimessi 14 ministri : il 50% nel quarto governo Berlusconi, il 28,57% in quello Renzi e il restante 21,43% negli esecutivi Monti e Letta. Una dinamica che vede ovviamente una stretta correlazione fra durata del governo, e numero di dimissioni.

Purtroppo se si vanno a vedere le motivazioni, prevalgono scandali giudiziari e casi mediatici, di cui l’inchiesta petrolio, che ha coinvolto l’ex ministra Guidi, è un chiaro esempio. Parliamo del 42,86% dei 14 casi analizzati, nell’ordine: Claudio Scajola (caso Anemone), Alfredo Brancher (scandalo Antonveneta), Nunzia De Girolamo (scandalo asl di Benevento), Josefa Idem (scandalo ici), Maurizio Lupi (scandalo grandi opere) e ultimo in ordine di tempo Federica Guidi (inchiesta petrolio). A questi si possono aggiungere i due casi “politici” di Sandro Bondi (crollo a Pompei) e Claudio Terzi di Sant’Agata con la questione Marò.

Meno ricorrente, ma comunque rilevante, la scelta di dimettersi per ricoprire un altro incarico. È il caso per esempio di Luca Zaia, passato alla guida della regione Veneto lasciando il dicastero delle politiche agricole nel quarto governo Berlusconi, posto poi ricoperto da Giancarlo Galan, che a sua volta di dimise per andare ai beni culturali dopo le dimissioni di Bondi. Altro caso durante l’ultimo governo Berlusconi fu quello di Angelino Alfano, che si dimise da guardasigilli per diventare il segretario nazionale del Popolo delle libertà.

Nella storia più recente ricordiamo Maria Carmela Lanzetta, che ha lasciato l’incarico di ministero per gli affari regionali nel governo Renzi, per andare a ricoprire (per soli due giorni) quello di assessore regionale in Calabria. Altro esempio quello di Federica Mogherini, che com’è noto ha salutato la guida della Farnesina per andare a ricoprire il ruolo di commissario alla politica estera europea.

Caso unico è stato quello di Andrea Ronchi, che durante la scissione fra il Popolo delle libertà e Futuro e libertà a fine 2010, decise di stare con Gianfranco Fini, lasciando quindi la sua poltrona nel quarto esecutivo Berlusconi.

Revocare un ministro? I paesi dove si può fare, e come

La nostra costituzione non considera, almeno esplicitamente, la possibilità per un primo ministro di revocare (o proporre la revoca) di uno dei suoi ministri. Un’eventualità che è stata discussa varie volte con le ipotesi di riforma per aumentare i poteri del premier (osteggiate da molti). Ma com’è è regolata la questione in altri in paesi? 

In altre democrazie europee la situazione è un po’ diversa. In Inghilterra, “il premier inglese è il capo del governo, composto da persone di sua fiducia che egli può revocare in qualsiasi momento“; in Germania il cancelliere (attualmente Angela Merkel) ha più poteri del collega italiano, nel senso che può proporre al presidente la revoca di uno dei suoi ministri; analoga la situazione in Spagna dove il presidente del governo propone al re la nomina e la revoca dei membri del suo esecutivo, in Francia (sistema semi-presidenziale) il presidente, sempre su proposta del premier, nomina e revoca i membri del gabinetto.

Le possibilità sono dunque diverse. In Inghilterra e Francia la massima espressione politica del paese (da un lato il primo ministro e dall’altro il presidente) possono autonomamente nominare e revocare i ministri. In Germania e Spagna il cancelliere e il premier possono solo proporre la revoca rispettivamente al presidente e al re, unici detentori formali del potere. In questi quattro i paesi, almeno costituzionalmente, il capo del governo (presidente, primo ministro o cancelliere che sia) ha almeno il potere di proporre la revoca di un ministro, possibilità che in Italia non esiste.

Ministri del governo: come e quando finiscono gli incarichi 

Inchieste giudiziarie, scandali mediatici e possibili errori politici nella gestione dei ministeri: le cause che possono portare l’opinione pubblica (e il parlamento) a chiedere la fine dell’incarico di un ministro possono essere molte, come si è visto nella storia recente. È evidente però che il processo è in un certo senso contorto: costituzionalmente il premier non ha poteri in materia e lo strumento della sfiducia non è mai (se non in un solo caso) riuscito nel suo intento; rimane perciò come unica opzione quella delle dimissioni. Dimissioni che molto spesso sono forzose, di fatto attribuendo al premier un potere che in teoria non ha. In altre paesi europei, il capo del governo ha quantomeno il potere di proporre la revoca di un ministro, eventualità che forse andrebbe inserita nel nostro assetto costituzionale, quanto meno per colmare questa mancanza a cui la prassi ha già rimediato.

Come sempre si torna al tema delle responsabilità politiche per le azioni del governo: dare al premier il potere di proporre la revoca di un ministro offrirebbe ai cittadini la possibilità di capire meglio chi e come ha realmente spinto per la fine dell’incarico. Per come funzionano le cose adesso, dietro l’atto delle dimissioni si nasconde spesso una nebulosa di cause e mandanti su cui non sempre è possibile fare luce.

 

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