I 5 stelle intrappolati in parlamento

Da inizio legislatura 7 parlamentari eletti con il M5s cercano, senza riuscirci, di terminare in anticipo il loro incarico. Dimissioni sempre respinte, per alcuni anche due volte. Dalle politiche del 2013 sono 20 le tentate dimissioni per motivi personali, meno della metà sono state accettate.

La storia di Giuseppe Vacciano non è un caso unico in parlamento. Come lui, infatti, anche altri parlamentari da inizio legislatura hanno tentato invano di dimettersi da Montecitorio o Palazzo Madama. Come abbiamo già visto il parlamento vota sull’accettare o meno determinate dimissioni, quando queste avvengono per motivi personali e non per incompatibilità.

Da inizio legislatura parliamo di 20 casi, di cui 9 hanno sono state accettate (45%) e 11 respinte (55%). Quello che sorprende però è la divisione nei partiti. Nessuno eletto del Movimento 5 stelle che ha tentato di dimettersi è riuscito nel suo intento . 10 votazioni che hanno coinvolto 6 parlamentari, tutte con esito negativo. Parliamo nello specifico di Laura Bignami (dimissioni respinte l’11 giugno del 2014), Cristian Iannuzzi (due volte, la prima il 12 febbraio 2015, la seconda il 27 febbraio 2015), Giovanna Mangili (anche lei due volte, il 3 aprile 2013 e il 17 aprile successivo), Francesco Molinari (dimissioni respinte il 17 febbraio 2015), Maria Mussini (votazione avvenuta l’11 giugno 2014), Ivana Simeoni (il 17 febbraio 2015), e il citato Giuseppe Vacciano (con due votazioni, la prima il 17 febbraio 2015 e la seconda il 16 settembre successivo). Come loro, per dovere di cronaca, anche Walter Tocci, senatore del Partito democratico, le cui dimissioni sono state respinte il 26 novembre scorso.

Sembra evidente quindi che la volontà di dimettersi, nella maggior parte delle occasioni non basta per terminare il proprio incarico in parlamento. Deputati e senatori coinvolti sono in qualche modo prigionieri della volontà del loro partito e del parlamento. La loro capacità di convincere i colleghi di gruppo, o del gruppo stesso di convincere il resto degli schieramenti, determina l’esito del voto. Tutto questo è ovviamente pensato a protezione sia del dimissionario che delle istituzioni (per evitare dimissioni “spinte” dal partito o da gruppi di interesse esterni), ma finisce per costituire uno scenario particolare. Le scuole di pensiero sembrano essere due: da un lato quelli che considerano ingiusto tenere qualcuno in aula contro la sua volontà, dall’altro lato quelli che pensano sia corretto tutelare così tanto il ruolo del parlamentare da possibili pressioni, proteggendo in questo modo anche le istituzioni stesse.

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