Missioni militari e politica estera, il ruolo del parlamento e la presenza dell’Italia – inTema n°1

Dalla crisi in Libia alla guerra civile siriana, ultimamente la politica estera è tornata con forza sulle prime pagine dei giornali italiani. Se ne parla molto, soprattutto per l’ipotesi di un possibile coinvolgimento del nostro paese dal punto di vista militare.

Cerchiamo allora di capire qual è il costo di una missione militare, quant’è la spesa per la difesa del nostro paese e soprattutto qual è il ruolo del nostro parlamento in tutto questo.

Politica estera, il lento dibattito in parlamento

Il modo principale con cui la politica estera entra in parlamento è attraverso la ratifica di trattati internazionali. Nelle ultime due legislature questi ultimi costituivano il 36,28% delle leggi approvate, la fetta più consistente dei disegni di legge che hanno completato l’iter. Il numero di questi provvedimenti – che con buona probabilità riguarderanno argomenti di politica estera –  è dunque consistente, ma è anche vero che trattandosi di ratifiche di testi nati fuori dalle aule parlamentari, il ruolo dei nostri eletti è molto limitato.

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Questi dati mostrano che le leggi prodotte dai nostri politici (membri del parlamento o del governo) sono una parte minima di quelle che vengono approvate dal parlamento. Non ci aiutano però a comprendere pienamente quale sia il ruolo della politica estera nelle aule di camera e senato. Un dato che può tornare utile in questo senso è quello dei tempi di approvazione dei disegni di legge, elemento con cui spesso è possibile tracciare le priorità politiche del governo.

In una legislatura in cui i disegni di legge di iniziativa parlamentare vengono approvati mediamente in 392 giorni, e quelli di iniziativa governativa in 156, le priorità politiche dell’esecutivo sembrano essere ben chiare. Al primo posto a pari merito ci sono i provvedimenti che riguardano imprese e giustizia, che mediamente completano l’iter in 46 giorni. Ma analizzando i dati del governo Renzi, è possibile evidenziare come proprio le tre tematiche che occupano le posizioni più basse sono quelle di politica estera. I provvedimenti che riguardano esteri, europa e trattati internazionali infatti sono quelli che vengono approvati più lentamente, rispettivamente con una media di 288, 298 e 316 giorni.

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Se da un lato quindi il governo sembra mettere la politica estera in fondo alle priorità politiche, dall’altro quando il parlamento affronta l’argomento, lo fa ratificando trattati internazionali su cui non può realmente intervenire.

Unica eccezione è rappresentata dai decreti per il finanziamento delle missioni militari, atti che per natura devono per forza di cosa essere approvati entro 60 giorni, e che quindi occupano una posizione alta nelle priorità del governo. È proprio grazie a questo strumento che è possibile rispondere a un’altra domanda: quanto costa andare in guerra?

Il decreto missioni e il costo degli interventi militari

Il decreto missioni è una delle poche occasioni in cui il dibattito parlamentare in materia di politica estera riceve particolare attenzione. La legge stanzia su base semestrale o annuale il budget per ogni missione militare a cui il nostro paese partecipa. In media parliamo di 1 miliardo l’anno.

Proprio per questo motivo, fa molto discutere la possibilità che il nostro paese intervenga in Libia, dando il via a una missione che coinvolgerebbe l’Italia dal punto di vista non solo militare, ma anche economico. Ma di quanti soldi stiamo parlando? Nell’ultimo periodo storico, l’esempio principale è sicuramente la guerra in Afghanistan, conflitto che coinvolge il nostro paese ormai dal lontano 2001. Le varie missioni che si sono succedute nel paese sono costate all’Italia circa 5 miliardi di euro.

Il modo migliore per tener traccia del costo economico di questo tipo di interventi è monitorare il cosiddetto decreto missioni. Come abbiamo visto nel MiniDossierAgenda setting: la cooperazione italiana” il decreto ha tempi di approvazione molto rapidi (poca discussione), e può contare su un sostegno generalmente bipartisan. Nelle ultime due legislature ogni volta che l’atto è stato discusso in aula, la maggioranza ha visto i suoi numeri crescere, andando ad includere spesso anche gruppi di opposizione. Sotto l’ultimo governo Berlusconi il provvedimento è stato accolto in maniera favorevole praticamente dall’intero parlamento, durante il governo Monti solamente Lega nord e Italia dei valori si opposero, mentre nel corso della attuale legislatura (governo Letta prima e Renzi poi) a dire no sono stati Movimento 5 stelle, Lega nord, Sinistra italiana – Sinistra ecologia e libertà e Fratelli d’Italia.

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Se da un lato solo la guerra in Afghanistan è costata 5 miliardi di euro, dall’altro dal 2009 al 2014 attraverso il decreto missioni mediamente sono stati approvati fondi per 1,3 miliardi di euro l’anno. Mentre la parte destinata alle missioni militari è progressivamente diminuita, quella destinata alla cooperazione, seppur notevolmente inferiore alla prima, è leggermente cresciuta. In totale parliamo di quasi 8 miliardi di euro, di cui il 9% dedicato alla cooperazione e il restante 91% al finanziamento delle missioni militari dell’Italia.

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Questi soldi non corrispondono alla cifra totale che il nostro paese spende per la difesa, ma costituiscono lo stanziamento approvato dal parlamento per le singole missioni. Perché se il decreto missioni rappresenta forse il momento più acceso di dibattito parlamentare sul tema della difesa, non è qui che bisogna guardare per capire quale sia l’esborso militare reale del nostro paese.

La spesa militare dell’Italia, l’1,5% del pil

Oltre al decreto missioni infatti, è con la legge di bilancio che ogni anno il parlamento decide lo stanziamento totale del nostro paese per le spese militari. Come membri della Nato, l’alleanza nord atlantica nata dopo la seconda guerra mondiale, ci è richiesto di spendere almeno il 2% del nostro pil per la difesa. Volontà che è stata riconfermata anche nel recente summit in Galles tenutosi nel 2014.

I membri Nato che spendono un minimo del 2% del proprio Prodotto Interno Lordo (Pil) per la difesa dovranno continuare a farlo […] gli altri dovranno puntare a raggiungere l’obbiettivo entro dieci anni.

Grazie al Sipri, lo Stockholm International Peace Research Institute, fonte più autorevole in materia, è possibile analizzare quanti sono i paesi Nato che rispettano la soglia richiesta. 

Come si può vedere dal grafico sono molto pochi. Per la precisione 6:  gli Usa (3,5%) sono l’unico paese nettamente sopra la percentuale richiesta, ma superano la soglia anche Francia (2,2%), Grecia (2,2%), Turchia (2,2%), Regno Unito (2,2%) ed Estonia (2%). Mentre la stragrande maggioranza dei membri Nato resta sotto la soglia del 2%. Ben 11 paesi hanno speso l’1% o meno del loro pil per la difesa.

L’Italia si ferma all’1,5%. L’ultima volta che il nostro paese era “in regola” era il 2004, quando la spesa totale di 27 miliardi di euro rappresentava esattamente il 2% del prodotto interno lordo. Da lì in poi i numeri sono in costante calo. Sempre secondo il Sipri, il nostro paese ha speso nell’ultimo anno di rilevazione, il 2014, poco più di 23 miliardi di euro per la difesa. Dopo una leggera risalita nel periodo 2008-2010, la spesa militare dell’Italia si è caratterizzata per un trend discendente.

La maggior parte di questi soldi viene dal bilancio del ministero della difesa. Con la legge di bilancio 2016 (come ogni anno) il parlamento ha stanziato 19,42 miliardi di euro per il dicastero guidato da Roberta Pinotti. Fra le principali voci di spesa: 5,6 miliardi per i carabinieri, 4,7 per le forze terrestri, 1,96 per le forze navali, 2,44 per le forze aree e 3,71 per la pianificazione generale e l’approvvigionamento militare.

Ma se l’esborso per la difesa è in calo, le missioni militari a cui partecipa il nostro paese continuano ad impegnare l’Italia sia sul territorio nazionale, sia all’estero. Per capire meglio è utile andare a vedere in quale luoghi, e sotto quali bandiere, sono dispiegate le nostre forze armate.

Missioni militari, la mappa dell’Italia nel mondo

Fra Nato, Onu e Unione europea, attualmente il nostro paese partecipa a oltre 20 missioni militari nel mondo. Con oltre 4 mila i militari italiani impegnati all’estero, altrettanti quelli attivi nei confini nazionali. Per capire come e dove vengono impiegate queste forze abbiamo cercato di consultare il sito del ministero della difesa, ma attualmente la sezione dedicata alle missioni militari del nostro paese è in fase di aggiornamento. Riprendiamo quindi i dati pubblicati nel nostro MiniDossier “Agenda setting: la cooperazione italiana” del giugno 2015.

Dei militari italiani operativi all’estero, il 53,99% è impiegato in operazioni Nato, il 28,42% con quelle dell’Onu e il 14,16% sotto bandiera Ue. Fra i paesi che ospitano più personale militare italiano ci sono l’Afghanistan (1.630 unità), il Libano (1.251) e la zona dei Balcani (559). Altra zona “calda” è l’Oceano Indiano, dove l’Italia è presente con 464 unità. Ma una parte considerevole del quadro è costituito dalle truppe utilizzate nei confini nazionali, tanto che l’operazione militare che impiega più personale è proprio in Italia ed è l’operazione strade sicureIl 55% del personale militare italiano è impegnato in missioni sul territorio nazionale.

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Politica estera e missioni militari, il ruolo che ha, e che forse dovrebbe avere, il nostro parlamento

Per tirare le somme, sembra evidente che molto raramente la politica estera entra nel parlamento italiano . Quando lo fa, di solito è attraverso la ratifica di trattati internazionali scritti altrove. Uno dei pochi provvedimenti che giustamente riceve attenzione politica e mediatica è il decreto che semestralmente finanzia le missioni militari dell’Italia. Decreto che per natura viene approvato in tempi veloci, generalmente da una maggioranza allargata. Il vero punto, però, è che il decreto in questione contribuisce in minima parte (circa il 4%) alla spesa per difesa totale del nostro paese.

Il parlamento italiano, per scelte politiche e motivi strutturali, ha un ruolo molto limitato nelle decisioni di politica estera del nostro paese. Una cosa però che non si può certamente negare, e che in qualche modo si dovrebbe favorire, è il dibattito in aula – e non solamente in commissione – di certe tematiche.

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