Il rifiuto delle cure nel diritto italiano

Più volte i giudici hanno dovuto supplire il vuoto normativo sui temi del fine vita, stratificando una giurisprudenza in cui è ricorrente il richiamo al legislatore e alla necessità di una legge nazionale. E in effetti sono numerosi gli aspetti contraddittori.

Attualmente nel nostro paese la possibilità di rifiutare le cure e disporre in anticipo indicazioni di trattamento non è espressamente normata. Esistono diverse iniziative, come  le centinaia di registri istituiti in ordine sparso nei comuni, le normative vigenti risultano a volte contrastanti, mentre i diversi casi di cronaca hanno contribuito a sedimentare una giurisprudenza varia sui temi del fine vita. Ma in mancanza di una legge organica molti aspetti rimangono controversi.

Innanzi tutto la carta fondamentale. L’art. 32 della costituzione italiana stabilisce che

«Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

Tuttavia una serie di norme limitano la libertà di scelta del paziente . A partire dal codice penale, che all’art. 579 punisce con la reclusione da 6 a 15 anni l’omicidio del consenziente, reato che potrebbe configurarsi in caso di eutanasia passiva. Inoltre l’art. 593 punisce l’omissione di soccorso, di cui potrebbe essere accusato il medico dopo l’interruzione della nutrizione artificiale o per l’arresto del respiratore automatico.

Invece nel codice civile l’articolo 5 esplicita che «Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica»

A livello europeo esiste una linea chiara, stabilita con la cosiddetta convenzione di Oviedo, primo strumento giuridico di bioetica promosso dal consiglio d’Europa. Di cui sono rilevanti l’articolo 5: 

«Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato.Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso».

E l’articolo 9:

«I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione».

Tuttavia nel nostro paese la procedura di ratifica si può dire “arenata” da tempo, poiché nonostante la legge di ratifica 145/2001, non sono mai stati emanati i decreti legislativi per adattare le leggi vigenti ai principi della convenzione.

In Italia nel 2008 è intervenuto il comitato nazionale di bioetica con un parere in cui si conclude che

«Il medico […] è destinatario di un fondamentale dovere di garanzia nei confronti del paziente, e deve sempre agire previo consenso di quest’ultimo rispetto al trattamento attivato».

La registrazione del consenso non si può intendere come «uno sbrigativo adempimento burocratico, ma sia preceduta da un’adeguata fase di comunicazione e interazione» fra medico e paziente. Secondo il parere degli esperti di bioetica, il medico deve avere la possibilità di rifiutarsi di sospendere o non praticare delle cure, ma al contempo « A larga maggioranza il comitato nazionale di bioetica ha ritenuto che il paziente abbia in ogni caso il diritto ad ottenere altrimenti la realizzazione della propria richiesta di interruzione della cura, anche in considerazione dell’eventuale e possibile astensione del medico o dell’équipe medica».

In diversi casi i tribunali sono stati chiamati a supplire l’assenza di una norma specifica sul fine vita. Nelle storie che più hanno colpito l’opinione pubblica ricorsi, controricorsi, annullamenti e sentenze si sono susseguiti per anni, stratificando una giurisprudenza che spesso ha richiamato la necessità di una apposita normativa sul fine vita e l’espressione della volontà del malato.

In particolare vale la pena citare la sentenza 21748 del 16 ottobre 2007, in cui si ribadisce che in base all’art. 32 della costituzione

«i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che l’intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile alla salute di chi vi è sottoposto (Corte cost., sentenze n. 258 del 1994 e n. 118 del 1996). Soltanto in questi limiti è costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire».

Mentre sulla possibilità di esprimere in anticipo le proprie volontà di trattamento l’unica regione ad aver normato la materia è il Friuli Venezia Giulia, la cui legge però è stata impugnata dalla presidenza del consiglio dei ministri, e in seguito dichiarata illegittima dalla corte costituzionale con la sentenza 216/2016, stabilendo che una normativa regionale in materia interferisce con la competenza legislativa dello stato e necessita di uniformità di trattamento sul territorio nazionale per ragioni di uguaglianza, al pari della normativa sulla donazione di organi e tessuti.

Ma anche in assenza di una norma specifica, sono comunque numerosi i comuni che hanno disposto dei registri per il testamento biologico. Secondo l’associazione Luca Coscioni sono oltre 150. Iniziative di questo tipo non hanno valore legale – tant’è che nella bozza di testo unificato si parla di un riconoscimento retroattivo di questi registri (art.5). Allo stato attuale, anche in assenza di una norma specifica, in caso di necessità possono essere comunque utili per ricostruire le volontà del paziente incosciente di fronte ai giudici.

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