Le donne nei consigli regionali

In nessuna regione italiana si raggiunge il 40% di donne nell’assemblea elettiva. Nonostante la maggior parte delle leggi elettorali regionali preveda meccanismi per incentivare l’equilibrio di genere. Il risultato migliore spetta all’Emilia Romagna, dove le consigliere sono il 32%.  Il 40% è la soglia minima che uno dei due sessi deve raggiungere negli organi decisionali perché questi siano considerati equilibrati dal punto di vista del genere. Nessuna regione italiana arriva a questa soglia nei consigli regionali e a mancare sono sempre le donne. Il risultato migliore spetta all’EmiliaRomagna, che arriva a un 32% di consigliere.

Risultati non brillanti, per di più spesso ottenuti anche grazie alle leggi elettorali regionali, che in molti casi prevedono specifici meccanismi per incentivare l’equilibrio di genere. Solo 4 regioni non prevedono dispositivi di questo tipo, mentre in Calabria la legge elettorale indica solo un generico principio senza prescrizioni esatte, e infatti le donne sono in assoluta minoranza: il 6,45% dell’assemblea. Invece in Piemonte, nonostante l’assenza di incentivi, si raggiunge comunque un 25,49% di consigliere. Il record negativo è invece della Basilicata, dove l’organo è completamente mono-genere, cioè tutto maschile.

Solo in quattro regioni è prevista la doppia preferenza di genere, cioè la possibilità per l’elettore di assegnare due preferenze a patto che siano per due sessi diversi. Queste quattro regioni sono Emilia Romagna, Campania, Umbria e Toscana. Il meccanismo invece più ricorrente è la quota minima in lista, prevista in 14 tra regioni e province autonome. Si tratta dell’indicazione del numero o percentuale minima che il sesso meno rappresentato deve raggiungere nella lista elettorale, di solito affinché la lista stessa sia ammessa alla competizione. Invece 5 leggi regionali prevedono l’obbligo di alternare i nomi dei candidati in base al genere. Come mostra il grafico, in alcuni casi queste disposizioni possono essere compresenti.

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