In quali professioni cresce la povertà

In dieci anni il livello di povertà assoluta è cresciuto per molti, ma in particolare per le famiglie di operai e di persone in cerca di lavoro. Tra chi ha potuto contare su un reddito fisso, indipendente dalla congiuntura economica sfavorevole, la quota di indigenti si è mantenuta più stabile.

Gli effetti della crisi economica non si sono abbattuti nello stesso modo su tutti i segmenti sociali. In alcune professioni, generalmente quelle collocate in posizione più debole sul mercato del lavoro, le conseguenze sono state molto più estese.

Nel 2015 le famiglie più in difficoltà sono quelle che hanno come persona di riferimento un operaio oppure un individuo in cerca di occupazione. Le famiglie che dipendono da chi sta cercando lavoro in un caso su cinque non possono permettersi uno standard di vita accettabile.

Tra le famiglie operaie il tasso di povertà assoluta è triplicato rispetto al 2005. In quell’anno, su 100 di questi nuclei familiari, meno di 4 si trovavano in una situazione di indigenza. La crisi ha peggiorato molto la condizione di chi vive di un lavoro dipendente manuale: nel 2015 l’11,7% delle famiglie operaie si trova in povertà assoluta.

Ma anche altri segmenti professionali, pur meno colpiti, hanno registrato un incremento non indifferente rispetto a dieci anni fa. Per esempio la probabilità di trovarsi in povertà assoluta è più che raddoppiata se la persona di riferimento è un lavoratore autonomo, passando dal 2 al 4,3%. Anche tra le famiglie dei colletti bianchi, sebbene il tasso di povertà assoluta resti contenuto sotto il 2%, rispetto al 2005 è aumentato di quasi dieci volte.

Gli unici che non hanno visto un peggioramento sono stati i ritirati dal lavoro, dove il livello di indigenza si è mantenuto sostanzialmente stabile, passando dal 4% del 2005 al 3,8% del 2015. La possibilità di godere di un reddito fisso, indipendente dalla crisi economica, probabilmente ha contribuito, almeno in parte, a rallentarne gli effetti.

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